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Immagine del redattoreTommaso Rossi

Una poltrona per due.

Partiamo da un presupposto. Enrico Letta non può essere definito politico. Non ha la stoffa, non ha la caratura, non ha il carattere e non ha nemmeno i fantomatici occhi della tigre. Enrico Letta è un ottimo insegnante e infatti ci domandiamo per quale arcano motivo sia stato richiamato da Parigi e posto a capo del PD attraverso un plebiscito napoleonico (alla faccia delle primarie! E menomale che son democratici).

Ieri al confronto con Giorgia Meloni è uscito, ancora una volta per quanto ci riguarda, con le ossa rotte e, per quanto la Meloni stia conducendo una ottima campagna elettorale - con qualche scivolone, sia chiaro, ma da cui tutto sommato sembra uscita indenne e in forte crescita – non ci pare uno dei politici più pericolosi e temuti della storia repubblicana. Due gli snodi fondamentali:

- Letta ricorda alla Meloni delle ambiguità (presenti, sia chiaro) di Salvini e Berlusconi nei confronti di Putin. La Meloni, di tutta risposta, gli ricorda come siano stati “solidali” i suoi alleati Bonelli o Fratoianni in aula con il popolo ucraino: no alle armi e no alle sanzioni, e tanti saluti alla resistenza.

- La situazione conti pubblici. Letta rinfaccia alla Meloni scellerata gestione dei conti pubblici nel triennio 2008 2011 (perché poi durante il triennio successivo guidato da Bruxelles la situazione è cambiata neh, Enrico?) che a sua volta gli ricorda, de facto, come nei 10 anni successivi al governo ci siano stati loro. Memoria corta.

Come scrive oggi molto puntualmente Mattia Feltri su Domani, Letta ha impostato tutto il dibattito sulla Meloni che è stata, una Meloni immaginaria, non quella che è, ossia la sua versione istituzionale. E ha inevitabilmente perso.

Ultima chiosa. Può un leader definire “pazzo” Calenda per aver chiesto un confronto a tutte le forze in campo? Capiamo la difficoltà e la mancanza di idee, ma Letta in versione autocratica ci mancava. D’altronde democratico è chi il democratico fa.


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