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Immagine del redattoreLuigi Gattone

Un fuoco che arde ancora.

«Volevo esprimere il mio dissenso e destare la mia gente». Furono queste le ultime, flebili parole di Jan Palach, patriota cecoslovacco, morto il 19 gennaio 1969.

Tre giorni prima, lo studente, poco più che ventenne, dopo aver trascorso una normale mattinata in università, uscì per comprare due taniche di benzina. Si recò in piazza San Venceslao a Praga, si versò addosso la benzina e si diede fuoco davanti agli increduli passanti: venne soccorso immediatamente e quindi trasferito in ospedale.


Nei giorni successivi ricevette visite da amici e familiari, venne intervistato da radio e giornali. Rimase lucido fino alla fine, cercando di chiarire a tutti il motivo del suo gesto: “non sono un suicida!”, ripeteva, invitando gli altri giovani a proseguire la lotta, ma a non seguire il suo esempio. Così non sarà: tanti altri ragazzi, studenti e operai divennero “torce umane” in tutto il blocco sovietico e non solo, denunciando le repressioni della dittatura comunista. Neanche la censura riuscì a spegnere il fuoco: centinaia di migliaia di persone si riversarono nelle strade della Praga occupata dai Sovietici, rendendo omaggio a Jan. Gli fu negata tuttavia la tumulazione nel cimitero degli eroi nazionali (Vysehrad), e solo dopo la caduta del Muro di Berlino gli furono tributati gli onori dovuti.


A mezzo secolo di distanza, il sacrificio di Jan Palach resta ancora ad illuminarci, a testimoniare gli orrori della dittatura comunista e di tutti i totalitarismi, a ricordarci di lottare e custodire il più prezioso dei valori – oggi, spesso, strumentalizzato e frainteso –: la Libertà.


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