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Immagine del redattoreLuigi Gattone

Il passato che ritorna (?).

Nell’ottobre del 1973, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori del Petrolio (OPEC) avviò un embargo verso i Paesi della NATO, e soprattutto gli Stati Uniti, che avevano sostenuto Israele nella Guerra del Kippur – cominciata il 7 ottobre e conclusasi il 25 –: il cartello ridusse la produzione e tagliò i rifornimenti, determinando un un aumento dei prezzi del petrolio del 70%, con effetti dirompenti sull’economia che si riverberarono fino agli anni Ottanta.

Di fatto, la crisi del ’73 fece da spartiacque tra il boom degli anni Sessanta e quello di vent’anni dopo.

L’OPEC viene costituita nel 1962 su iniziativa del Venezuela e dell’Arabia Saudita durante un summit a Baghdad: vi aderirono come membri fondatori anche Iran, Iraq e Kuwait.

L’organizzazione nasce come antitesi alle “sette sorelle”, cioè un cartello di 7 compagnie petrolifere occidentali – Royal Dutch Shell, Anglo-Persian Oil Company, Standard Oil-New Jersey, Standard Oil-New York, Standard Oil-California, Texaco e Gulf Oil– che dagli anni ‘30 controllavano la quasi totalità delle entrate globali derivanti dalla vendita del greggio, assumendo posizioni di dominio e sfruttamento coloniale nel Terzo Mondo. Già Enrico Mattei con l’Agip aveva cominciato a scalfire l’oligopolio del petrolio, ottenendo contratti vantaggiosi in Iran e prendendo contatti in diversi paesi del Medio Oriente e Nord Africa (Giordania, Marocco, Tunisia): tanti sostengono che l’OPEC ne abbia ricalcato l’opera, soprattutto nello spirito di riscatto nazionale contro l’imperialismo occidentale e il colonialismo.

Oggi i membri dell’OPEC sono 13 e comprendono diversi Paesi dell’Africa e del Medio Oriente: gli Stati membri controllano i 2/3 delle riserve mondiali di petrolio.

Per i Paesi dell’OPEC, si ebbe fino al decennio successivo un incremento esponenziale delle rendite petrolifere: spesso, tuttavia, ne beneficiarono esclusivamente i leader politici, i rispettivi clan o quadri di partito, a discapito della maggioranza della popolazione, che viveva (e vive tuttora) in condizioni di povertà estrema o indigenza.

In Occidente, lo shock petrolifero del ‘73 per la prima volta dimostrò che i combustibili fossili fossero insostituibili per l’industria e per l’utilizzo civile e privato.

Fino al marzo successivo, i governi europei vararono misure di razionamento dell’energia e di austerity per combattere la carenza di petrolio e le ripercussioni economiche – durante il decennio ’70 l’inflazione toccò i 20 punti. In Italia, con il governo Rumor, vennero istituiti il divieto di circolare in auto la domenica, la fine anticipata dei programmi televisivi e la riduzione delle ore di illuminazione pubblica e commerciale.

Si iniziò, per la prima volta, a parlare di “sostenibilità” e “risparmio energetico” per le industrie e di “indipendenza energetica”, aprendo alla costruzione di nuove centrali nucleari e alla ricerca di nuovi giacimenti di petrolio e gas naturale in Europa (come in Norvegia).

Gli USA, già dagli anni ’50 avevano irrobustito la produzione interna di petrolio e gas naturale, riducendo le importazioni al solo 9% del fabbisogno energetico, per cui l’impatto della crisi fu minore; conseguenze drastiche si ebbero in Europa e soprattutto nelle repubbliche sovietiche, dove l’arretratezza delle industrie rese ancora più cruciale la carenza del petrolio.

Impossibile non notare delle similitudini con quanto sta accadendo – se non altro, nel dibattito pubblico, dato che dal punto di vista economico la situazione odierna è molto peggiore – negli ultimi mesi come conseguenza dell’impennata del prezzo degli idrocarburi e dell’invasione dell’Ucraina: il razionamento dell’energia, la chiusura anticipata dei locali, le restrizioni all’illuminazione pubblica e al riscaldamento commerciale e privato.

Allo stesso modo, anche la questione dell’indipendenza energetica è tornata centrale: si è tornati a parlare di rigassificatori (lo faceva Mattei negli anni Cinquanta), di energia nucleare, di diversificazione delle risorse (con la novità delle energie rinnovabili) e dell’approvvigionamento.

È il passato che ritorna?

Non esattamente. La differenza rispetto al passato è che non viene messo in discussione il sistema economico (e a 50 anni di distanza non vi sono ancora valide alternative ai combustibili fossili), e l’autosufficienza energetica veniva letta nei termini del Nazionalismo, come un’emancipazione e un “riscatto” contro i Paesi imperialisti – questa era una delle riflessioni centrali di Enrico Mattei già prima dello Shock del ’73.

La riflessione odierna è ideale e post-ideologica: i cardini sono la sostenibilità ambientale, riconducibile all’idea di giustizia sociale e “generazionale”, e – particolarmente dopo la guerra in Ucraina – la volontà di affrancarsi dalle autocrazie e di non essere “ricattabili”.

Come si evince, il dibattito sull’energia è entrato anche nella sfera morale e non solo in quella strategica.

L’aspetto più coerente con quanto accaduto nel ’73 è la ritrovata centralità dell’OPEC e anche dei Paesi produttori (prevalentemente nel Terzo Mondo) che non ne fanno parte. Specificamente, l’OPEC favorì la preminenza geopolitica dell’Arabia Saudita: il gigante arabo, secondo al mondo per riserve di petrolio, diventò l’ago della bilancia all’interno del cartello, adeguando la propria produzione a quella degli altri membri (e tollerando le infrazioni, cioè la sovra o sottoproduzione degli altri Stati). Riuscì quindi a guadagnare una enorme capacità di influenzare, tramite l’OPEC, l’andamento dei prezzi del petrolio a livello globale. Inoltre, negli ultimi decenni del Novecento, divenne l’interlocutore privilegiato degli USA in Medio Oriente, specialmente in funzione anti-irachena (al tempo di Saddam) e anti-iraniana.

Non stupisce che sia stato il primo Paese ad essere interpellato per colmare l’assenza del gas russo negli ultimi mesi: tuttavia, i negoziati si sono risolti in un buco nell’acqua, rivelando l’incoerenza e l’inaffidabilità di molte alleanze occidentali. Certo, ragionando in una prospettiva a-valutativa, è chiaro come Riyadh abbia una chiara prospettiva di interesse nazionale, e che la vicinanza ai partner occidentali non sia mai stata disinteressata, ma funzionale ai propri obiettivi strategici – uno su tutti: limitare l’influenza iraniana nel Medio Oriente.

L’unica soluzione coerente e definitiva, non può essere che quella a cui si arrivò quasi cinquant’anni fa: rendersi autosufficienti dal punto di vista energetico. In questo senso, aver affiancato agli sviluppi scientifici e tecnologici (energie rinnovabili, nuove generazioni di nucleare) anche una coscienza e consapevolezza “collettiva” a riguardo (diminuzione degli sprechi e sostenibilità economica e intergenerazionale), non può che essere un catalizzatore per raggiungere quest’obiettivo: i tempi sono maturi, e le decisioni sono ormai improrogabili.

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