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Immagine del redattoreTommaso Rossi

Il Club del libro: “La Cappa” di Marcello Veneziani

Una statua ci vuole, se non per il gusto di abbatterla.


Come sotto una Cappa. È questa la metafora che Veneziani utilizza per descrivere il senso di oppressione, repressione e disagio che il nostro Io si trova ad affrontare e sopportare quotidianamente in una società che toglie visione e respiro. Ne La Cappa, per una critica al presente edito da Marsilio (pp. 304 in brossura, 18 euro), Veneziani si interroga sulla scomparsa di valori, credenze e tradizione nel nostro secolo: non veni pacemmittere sed gladium, non pace o rassegnazione, ma spada, critica tagliente, come da lui indicato nel primo capitolo.

Attraverso una disamina che parte dalla natura - termine e visione del mondo opposta a quello di ambiente tipico del nostro tempo - passando per i sessi, la salute, la storia e la lingua, l'autore traccia un percorso per uscire, o almeno tentare di farlo, dalla Cappa che schiaccia il nostro Io, e lo fa partendo da un concetto: pensare il presente.

La cappa è l’immagine che rende l’uniformità del presente, nuvole che si addensano e formano una cappa (per motivi sanitari, ideologici, storici, ecc) che rendono difficile respirare, nel senso spirituale del termine. Una nuvola che non permette di vedere il cielo, di instaurare un rapporto con - nel suo caso - Dio, di osare oltre il terreno. Un rapporto col sacro determinato anche dalla figura Papa Bergoglio, sul cui pontificato l’autore rimane critico, soprattutto in merito al rapporto di fratellanza: una fratellanza che non riconosce il cielo degenera in retrovia o fratricidio. Si può essere fratelli rispetto al pater, figura prima che ci riconduce a una radice comune. È presente invece oggi una religione della umanità che prescinde dal rapporto con Dio, un Papa che guarda a terra edè quindi conforme alla cappa che non fa vedere il cielo, che lo copre, lo occulta, lo avvolge.

Forte anche la critica alla globalizzazione. Le identità e i confini servono a preservare, a salvare, a rendere preziosa la presenza di taluni nei confronti del territorio. Un elogio alla diversità già proprio e presente in autori come de Benoist, che portano al rifiuto del melting pot culturale che annienta le differenze, vero motore della presa di coscienza del proprio Io. L’umanità è quindi altro rispetto ai popoli, schiavi di una definizione propria solo dello stato e dei confini da esso tracciati.

Interessante poi la visione del rapporto primario con la natura econ la morte. Si deve prendere coscienza, ora più che mai in Occidente, che si può anche morire. Per salvare la vita, oggi, si perdono le ragioni di rendere la vita vissuta. Si deve partire per Veneziani dal concetto di finitudine, l’essere umano è finito, delimitato temporalmente sul piano terreno. Siamo esseri naturali, la natura fa parte di noi. Il problema oggi, per l’autore, è la pretesa di ricondurre la natura alla scienza, all’ambiente e alla biologia, non alla vita. L’ambiente è un surrogato dalla natura, la natura infatti comporta la vita umana, la natura umana. L’ambiente non si può separare dai problemi della umanità, è una questione di rimettere in discussione l’uomo e la natura, e quindi la nostra visione del presente. Salvare la vita per non vivere più. Una dicotomia che ha contraddistinto soprattutto la parte finale della gestione emergenziale. Come uscirne? L’autore riconosce - spesso ma non sempre - la validità delle misure tecnosanitarie prese dai governi occidentali, ma pone il problema dicotomico vita attiva - vita passiva (Agamben la tradurrebbe nel suo ormai celebre Homo Sacer), pone il problema biopolitico alla base. Fin dove arriva lo stato emergenziale? Fin dove lo stato di eccezione può arrivare? Fin dove la “nuda vita”, sempre riprendendo Agamben, può rimanere inclusa per essere esclusa? Veneziani propone un “risorgimento biologico, personale e comunitario per poter riprendere l’energia repressa e depressa da mesi di lockdown, per recuperare e risorgere”. Visione che quindi non può prescindere che da uno sforzo del singolo, ormai esule in una società che non sente sua.

Ma la vera domande del libro è: come si esce dalla cappa? Veneziani non esprime fiducia in movimenti e rivoluzioni, ma crede si possa solo tentare una rivoluzione intellettuale, un gramscismo di destra (si badi bene, solo sul piano metodologico) che si riappropri sul piano culturale di una egemonia che rimetta in discussione il progressismo: la spada dell’intelligenza può solo ferire la cappa, sostiene infatti sul finire del libro. Si utilizzal’immagine dell’assalto al cielo per salire, sgomberare la cappa e tornare a guardarlo, con occhi diversi.

Veneziani nella sua disamina critica quindi fortemente la società contemporanea, accusandola di essersi piegata ad una visione del mondo che rinnega il passato distruggendo il futuro, senza pensare il presente. Perché, come sostiene parafrasando Pavese ne “La luna e i Falò”, una statua ci vuole, non fosse per il gusto di abbatterla.

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