top of page
Immagine del redattoreTommaso Rossi

I moti di Reggio

Ciccio Franco e la Kalabrische Revolution

 

Come accadde che un (quasi) insignificante sindacalista come Ciccio Franco - all’anagrafe Francesco - di un (quasi) insignificante sindacato come la CISNAL, riconducibile a un (quasi, fino a quel momento) insignificante partito quale fu il Movimento Sociale, avviò, guidò, condusse e placò la prima grande e unica rivolta che l’Italia post Mussoliniana conobbe? E come fu possibile che questa impetuosa mareggiata si infranse contro il – si sperava – capoluogo designato della regione che più di tutte è sinonimo di rassegnazione popolare (assieme alla Sicilia), come la Calabria? Facciamo qualche passo indietro.



Siamo nel 1970. Piu precisamente il 14 Luglio, giorno della presa della Bastiglia (calabra). Dopo 26 anni dalla entrata in vigore della costituzione si decise di portare a compimento il (terribile? Mal progettato? Ben costruito? Mi viene da dire la seconda. Ma anche la prima non mi dispiace) progetto regionale con la istituzionedelle stesse. A Roma, dopo anni di ritardi dovute al blocco della DC (che fondamentalmente voleva ostacolare un governo regionale comunista, quasi sicuro nelle regioni centrali) si decise quindi di attuare gli articoli 114 e 115, che prevedevano l’istituzione delle regioni.

 

Ma cosa centra – voi vi chiederete - tutto ciò con tal Ciccio Franco?

 

Fino a qui nulla. Da qui in poi fu il centro della KalabrischeRevolution (mi perdonino Von Solomon, Schmitt, Jünger e gli altri amici). Infatti il problema vero si pose quando, dopo mesi di trattative e dopo aver dato per scontato (grazie a rassicurazioni parlamentari e ministeriali) la scelta del porre il capoluogo a Reggio Calabria (coi benefici annessi, ndr) si decise di trasferire il capoluogo a Catanzaro. Il popolo reggino insorse e Ciccio Franco capeggiò la rivolta. Il 13 Luglio indisse uno sciopero sindacale, prontamente annullato per i tumulti presenti, ma che non fecero che aumentare quando il giorno seguente al grido di “boia chi molla” di stampo d’Annunziano indirizzò la protesta in senso antisistemico, anti romano e neofascista. I dirigenti di CISL e CGIL condannarono immediatamente il gesto non rendendosi conto delle potenzialità elettorale e dello spirito dei rivoltosi, mossi da un sincero malessere e da uno slancio vitale collettivo.

 

Non volendovi tediare con tutta la storia della rivolta, vi basti sapere che essa durò fino a Febbraio, circa 7 mesi, con sei morti, cinquantaquattro feriti e migliaia di arresti e si concluse solo dopo un intervento militare del governo, con carri armati che sfilavano simpaticamente lungo le spiagge reggine.

 

Ma quale fu la vera portata di queste rivolte?

Ci viene in aiuto Marcello Veneziani, che individua quattro punti focali, a cui mi sento di aggiungerne almeno un paio. Dice infatti Veneziani:


- “Fu la prima rivolta contro le Regioni, esplosa nello stesso anno in cui nascevano, di cui fu battesimo di sangue;


- fu l’ultima rivolta del Sud, l’ultima insorgenza popolare e populista nel Meridione contro il potere centrale, prima che il Meridione si consegnasse all’apatia o alla criminalità organizzata;


- fu forse la prima volta che in Italia e nell’Europa libera e democratica scesero per strada contro la popolazione i carri armati, come nei paesi comunisti dell’est. E infine…


- fu l’ultima rivolta di popolo capeggiata dalla destra, una destra rivoluzionaria, nazionalpopolare e sindacalista che agiva ai bordi dell’Msi, della Cisnal e lambiva in modo trasversale altre forze politiche. Non solo esponenti interni al potere e ai partiti, ma anche movimenti estremi di destra e di sinistra, se si pensa all’attenzione positiva che Lotta Continua e Adriano Sofri riservarono a quella rivolta. Un po’ come era accaduto mezzo secolo prima a Fiume quando la sinistra rivoluzionaria del tempo, Gramsci incluso, seguì con favore la rivolta nazionalista e interventista di D’Annunzio e dei suoi legionari. Dannunziano fu lo slogan della rivolta reggina, «Boia chi molla»; ma diversi furono il clima e la statura dei protagonisti. Reggio fu il ’68 dei terroni, la banlieu dei cafoni.”


Le considerazioni sul fenomeno in sé e sulla portata storica sono indubbie, ma la domanda sorge spontanea. Fu mai veramente unita l’Italia? Può una pur semplice rivolta, mettere in discussione l’equilibrio istituzionale e sistemico di un paese? Lo stato Italiano, con i suoi campanilismi e le sue divisioni geografico territoriali, potrà mai essere unito? Solo una volta ci riuscì, e non finì bene (non si fanno nomi ma accadde tra il 10 Ottobre del 1922 e l’8 settembre del 1943). Non è smantellando lo stato centrale che si raggiunge l’efficienza, parola molto in voga oggi. È con una comune idea di Nazione (trascendenza) e di patria (immanenza) che si costruisce un assetto istituzionale valido.


Una mia professoressa universitaria, alla provocatoria domanda “ma l’unità d’Italia fu davvero indispensabile?” sorridendo mi rispose: “Una professoressa non può rispondere a una simile domanda, mi mette in difficoltà”. Ecco, la risposta la dobbiamo dare noi. Fu indispensabile? Ai posteri, ma anche a noi, l’ardua sentenza.

 

Comments


bottom of page