Con la notizia del femminicidio di ieri avvenuto a Sorrento, il computo totale annuale di quelli che una volta erano conosciuti come “delitti d’onore”, ad ora, sono 70.
Questi deplorevoli eventi, per la maggior parte delle volte premeditati, sono il finale di un percorso dettato da minacce, stalking e molte volte di denunce da parte delle future vittime. Anche nell’ultimo caso citato pocanzi a Sorrento, la vittima, deceduta il 17 agosto aveva sporto due denunce – il 24 e 25 luglio – a due diverse stazioni dei Carabinieri.
La responsabilità di tali atti atroci ricade, ovviamente, sugli esecutori del femminicidio, ci sono però altri responsabili? O perlomeno, qualcuno avrebbe potuto farlo evitare? Se le future vittime prime di essere uccise hanno sporto denuncia, chi di dovere – forze di polizia e autorità giudiziaria – deve intervenire nell’immediato per constatare la gravità stessa della situazione e il rischio che il tutto possa precipitare. L’inasprimento delle pene e la tempestività di intervento a seguito di denunce dato della Legge Codice Rosso del 2019 non bastano.
È necessaria una cultura della prevenzione e soprattutto dell’attenzione a quelli che sono riscontrabili come fattori di rischio. Chi viene scoperto commettere atti violenti deve seguire un percorso di riabilitazione onde evitare che possa ricommettere atti violenti.
Di concerno serve che le misure cautelari siano da considerarsi tali e non come misure blande. Quando il rischio è constatato, la misura cautelare deve essere posta all’interno di una struttura sicura poiché non basta il divieto di avvicinamento.
Infine, diventano fondamentali: l’ottenimento di una coscienza collettiva, di un insegnamento alla cultura della non violenza e del non possesso, siano essi uomini o donne.
Le rivoluzioni passano sempre dalla cultura.
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