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Immagine del redattoreLuigi Gattone

Attacco ad Israele.

Nella notte di sabato 13 aprile, la Repubblica Islamica ha lanciato un consistente attacco missilistico contro Israele, come rappresaglia per l’air strike sul consolato iraniano a Damasco di due settimane prima – in cui sono morti il generale Zahedi e altri ufficiali dei pasdaran. L’operazione True Promise ha coinvolto il lancio di circa 200 tra droni (in larghissima parte), missili balistici e missili da crociera: secondo diverse stime, il 98-99% dei missili è stato intercettato con successo dal sistema di contraerea Iron Dome e dall’aviazione israeliana, con supporto anglo-statunitense e giordano. Alcuni missili hanno colpito una base israeliana nel Negev con minimi danni, e non sono registrate vittime tra militari e civili.

L’attacco contro lo Stato Ebraico segna un precedente inedito: la guerra fredda tra Teheran e Tel Aviv si fondava su un reciproco potere di deterrenza, che consentiva proprio di non colpire direttamente i propri territori. Secondo Teheran, è stato Israele per primo a superare questa “linea rossa” con l’attacco del 1° aprile – nota bene: secondo il diritto internazionale, le sedi diplomatiche di uno stato sono da considerarsi una estensione del territorio nazionale, e sono quindi inviolabili. L’irrigidimento dei due rivali mediorientali su posizioni sempre più estreme è motivato da diversi fattori di ordine interno e internazionale: i fatti successivi al 7 ottobre, d’altra parte, lasciavano presagire un potenziale aggravamento del conflitto.

Per Israele, psicologicamente devastato dall’attacco terroristico di Hamas, la sicurezza nazionale è strettamente legata alla capacità di dissuadere i propri nemici da qualsiasi tentativo di attacco: in questo senso, la furia dell’invasione di Gaza e gli assassini mirati oltre confine erano necessari a ristabilire la credibilità di una ritorsione violenta e “sproporzionata”. Di contro, l’allargamento dello scontro ai teatri siriano e libanese, oltre all’attacco diretto contro alti quadri dei pasdaran, ha spinto Teheran verso una postura maggiormente conflittuale: tanto da rinunciare alla politica di esternalizzazione dei conflitti, cardine della dottrina iraniana dalla sanguinosa guerra contro l’Iraq (1980-88). L’escalation tra Iran e Israele è conseguente, quindi, alla perdita di una mutua e credibile deterrenza: questo gioco al rialzo, serve tanto per dissuadere altri e più gravi attacchi, quanto per benefici reputazionali presso il fronte interno.

In questo senso, l’attacco di Teheran è stato ritenuto da molti più “scenografico” che realmente atto a colpire obiettivi israeliani. Come, peraltro, già avvenuto in passato: dopo l’uccisione del Generale Qassem Soleimani, comandante della Forza Quds, in un raid del 3 gennaio 2020, i pasdaran hanno lanciato un attacco contro basi statunitensi in Iraq, sempre previo avvertimento e senza provocare vittime. Allo stesso modo, dopo l’air strike israeliano che uccise il Generale Mousavi a Beirut (dicembre 2023) e l’attentato di Kerman (gennaio 2024) da parte dell’IS-K, l’Iran ha risposto con il lancio di missili a lunga gittata nella zona di Erbil (nel Kurdistan iracheno, colpendo una abitazione civile e uccidendone gli abitanti), e in Pakistan. Ancora, una prova muscolare con l’obiettivo di mettere in mostra il proprio arsenale e dimostrare di volerlo utilizzare in caso di necessità. A fronte del trade off tra il costo materiale dello sciame di droni e missili (bassissimo: trattasi probabilmente di dispositivi prossimi all’obsolescenza) e quello della difesa israeliana (molto alto), Teheran sembra aver segnato un successo. Poi, gli avvertimenti all’intelligence americana dell’imminente attacco, il tempo di percorrenza dei droni, che consentiva di prevederne facilmente la traiettoria, suggeriscono che la Repubblica Islamica, come suo solito, fosse interessata ad uno show of force verso i propri avversari, dando prova di una reazione effettiva e massiccia, e alleati, ribadendo la concretezza e la solidità dell’Asse della Resistenza.

Se lo Stato Ebraico può vantarsi della straordinaria capacità difensiva, Netanyahu ha annunciato altre ritorsioni. L’obiettivo per il governo israeliano è quello di cavalcare la crisi con Teheran, distogliendo l’attenzione da Gaza e riguadagnando il supporto degli alleati occidentali, riparando ai danni d’immagine dell’invasione della Striscia – che avevano determinato un crescente isolamento internazionale. Resta da capire se anche per Tel Aviv possa considerarsi “una partita chiusa”. O meglio: a dispetto delle pressioni statunitensi, probabilmente non lo sarà. C’è da chiedersi, allora, se la risposta israeliana si manterrà al di sotto della soglia psicologica che obbligherebbe la Repubblica Islamica ad una ulteriore rappresaglia: ad esempio, un altro tentativo di decapitazione della sua leadership politica-militare. In Medio Oriente, da oltre sei mesi a questa parte, la tensione rimane elevata, mentre lo spazio per una soluzione diplomatica continua a ridursi.

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